Accompagnato dalla mamma, vestito con un
grembiulino nero, il colletto
bianco e un
fiocchetto azzurro, aspettavo fuori dall’aula in
attesa di essere
chiamato.
Era il primo giorno di scuola. Un
bambino, prima di me,
strillava e non voleva entrare. La sua mamma
cercava tutti gli
argomenti pur di convincerlo, ma nulla, non c’era
verso, non si
staccava da lei. Entrò tenendo stretta la mano
della sua mamma, si
sedette nel banco, si guardò attorno e solo allora
si tranquillizzò.
Venne il mio turno: la mamma mi salutò lasciandomi
la mano e il bidello
mi accompagnò nel secondo banco della terza fila,
vicino a una grande
finestra. Mi sedetti: attorno a me, quelli che
sarebbero diventati i
miei compagni di classe. Non conoscevo nessuno.
Silenzio assoluto, il bidello era
stato categorico. Eravamo
in trentadue.
Quando tutti i posti furono occupati,
entrò la maestra.
Era giovane, con un bel sorriso e la voce calma,
serena. Aveva i
capelli scuri, corti, con una frangia che, ad ogni
passo, le saltellava
sulla fronte. Da subito provai simpatia per lei.
Passò tra i banchi e
consegnò ad ognuno di noi una matita e un quaderno
a quadretti grandi.
Dopo averci salutato ed essersi
presentata, ci fece aprire
il
quaderno e con la matita appuntita ci fece
tracciare delle righe
orizzontali e verticali in corrispondenza di
ognuno dei quattro lati di
ogni quadretto. Camminava su e giù per la classe e
ogni volta che si
avvicinava, sorrideva e osservava.
Guardava incuriosita, non diceva nulla e andava
oltre. Mi sentivo a mio
agio e ascoltavo con piacere la sua voce. Le sue
parole e il suo
sguardo mi tranquillizzavano.
In classe, il tempo trascorreva
disegnando e imparando a
scrivere
le prime lettere e le prime parole. La lavagna,
montata su un
cavalletto di legno, da un lato aveva i quadretti
e dall’altro no. Con
il gesso, la maestra componeva il disegno seguendo
i quadretti, così
per noi era più facile copiarlo. La scrittura
delle lettere e delle
parole andava di pari passo. Lei scriveva e noi
copiavamo. Era un
gioco, ma non durò a lungo.
Un lunedì del secondo mese di scuola,
entrando in aula,
trovammo
un’altra maestra. Si presentò e ci disse che lei
era la nostra vera
insegnante, che quella di prima era solo una
supplente e che da quel
momento in avanti si sarebbe fatto sul serio.
Si sedette in cattedra, ci fece aprire il quaderno
e dettò la prima
parola, ma si fermò subito.
Si alzò, venne verso di me, mi strappò
la matita e me la
sistemò
nell’altra mano, la destra. «Questa è la mano
giusta per scrivere»
disse.
I compagni sogghignavano non per via
della mano sbagliata,
ma
perché ero diventato rosso come un peperone. Il
contatto con le sue
mani mi aveva stravolto: erano gelide.
La mattina seguente vidi l’insegnante
parlare con la mia
mamma e
il risultato fu che per dieci giorni dovetti
portare il braccio
sinistro appeso al collo con una fascia, così da
essere obbligato a
scrivere con la destra. Neanche a casa potevo
toglierla. Quando
accompagnavo la mia mamma al negozietto a far
compere, a chi avesse
chiesto il perché della fascia, avrei dovuto
rispondere che ero caduto
in bicicletta e il braccio mi faceva male.
Scrivere con la destra era una pena:
lettere storte,
scarabocchi,
pieghe e pieghine nel foglio. Anche il tempo per
scrivere era
raddoppiato e facevo fatica a seguire la maestra
quando dettava. Se
qualche parola mi sfuggiva, lasciavo lo spazio
vuoto, così quando
ripeteva la frase potevo riempirlo; ma anche così
il foglio si riempiva
di scarabocchi.
Ogni tanto, la grande finestra alla
mia sinistra veniva
aperta
per cambiare aria. Un giorno la maestra mi passò
di fianco, mi guardò,
prese il mio quaderno, lo sfogliò e mi chiese che
cosa fossero quei
pasticci, il perché di quegli scarabocchi e di
quelle pieghe. Disse di
non aver mai visto un simile disordine e che era
inammissibile che si
potesse scrivere così male. Rimasi pietrificato e
non dissi una
parola, non riuscivo neanche a trovare una scusa.
Vidi il mio quaderno partire e volare
fuori dalla finestra
aperta, finendo giù, nel cortile della scuola.
Fuori pioveva.
Quella mattina rimasi in classe prima
dietro la lavagna, in
punizione, poi dietro la cattedra, in piedi, in
modo che tutti mi
vedessero. Ero di esempio per ciò che non doveva
essere fatto.
I miei genitori furono obbligati a comprare un
quaderno nuovo e da quel
giorno i guai mi accompagnarono non solo a scuola,
ma anche a casa. Ero
disorientato e non riuscivo a distinguere cosa
fosse giusto fare da ciò
che non lo era, riuscivo a fare sempre la cosa
sbagliata.
Verso la fine dell’anno si presentò in
classe la direttrice
della
scuola. Era una donna enorme, con un vocione da
far paura: sembrava un
generale, anche l’insegnante era sull’attenti.
Ci disse di aprire il quaderno. Avrebbe fatto un
dettato per vedere a
che punto eravamo con l’apprendimento. Si
raccomandò che scrivessimo
esattamente tutto quello che diceva, senza errori.
Si sedette in cattedra con la maestra
in piedi, vicino a
lei.
Iniziò: «titolo
lettera maiuscola La
primavera a capo lettera maiuscola Oggi è il
primo giorno di primavera
punto a capo…» Non riuscivo a starle
dietro, era troppo veloce.
Avevo perso le parole per strada. Mi bloccai e non
andai oltre.
Avevo voglia di piangere. Mi guardai
attorno: i miei
compagni
continuavano a scrivere, tranquilli. Capii che
c’era qualcosa che non
andava, che forse avevo capito male, che avevo
sbagliato qualcosa, ma
non capivo cosa. Quando la maestra vide il mio
dettato, trasalì: avevo
scritto: “titolo
lettera
maiuscola la primavera a
capo
lettera maiuscola oggi è
il primo
giorno di primavera
punto a capo”.
Avevo scritto tutto quello che la direttrice
dettava, così come aveva
chiesto.
Quell’episodio fece storia.
Probabilmente il mio quaderno venne citato
anche in altra sede.
Una cosa simile non si era mai vista a memoria di
tutti.
Da allora odiai la scuola: ci volle molto tempo
perché ritrovassi il
piacere di entrare in classe.
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