I CINQUE PONTI

EMOZIONE

I cachi

Forlì 1956

”photo”

  Arrampicarsi su quell’albero, in giardino, era facile: una piccola rincorsa, un saltello e le mani afferravano il ramo più basso. Ancora uno sforzo ed ero in mezzo alle fronde. Finalmente lontano da tutto e da tutti. Protetto dai rami e dalle foglie, non potevano vedermi: non sapevano che quello era il mio rifugio, quando volevo nascondermi. Se mi avessero cercato, non mi avrebbero trovato: sarei rimasto rannicchiato, in silenzio. Solo io, con i miei sogni e anche i miei problemi. Ero convinto che quei problemi me li avessero creati loro. In testa, risuonavano tante domande. Perché mi trattavano così? Che cosa volevano da me? Perché non andava bene niente di ciò che facevo?
  Questo capitava sia a casa sia a scuola. La musica era sempre la stessa e non trovavo risposte. Ero veramente quello che dicevano? Tormentato e irrequieto? Distratto e assente? L’unica cosa che avvertivo con chiarezza è che ero lontano da loro. Mi sentivo abbandonato e mi chiedevo se fossi io che mi allontanavo da loro o erano loro che si allontanavano da me. Le loro voci, le loro parole, i loro rimproveri risuonavano nella mia mente e facevano male. Sentivo il bisogno di pace, quella che trovavo stando su quell’albero di cachi, lontano da tutti.
  Alcuni frutti, ancora verdi, erano caduti a terra e i più vecchi, quelli dal colore bruno scuro, ormai putridi e liquefatti, erano avvolti in una nube di moscerini. Entravano e uscivano: un brulicare di vita dentro e fuori da quell'involucro. Mi ero incantato ad osservarli, dall’alto, e la fantasia correva.
  Vedevo una città, piena di gente che entrava e usciva dalle loro case; tutti si conoscevano e quando qualcuno scappava perché avvertiva un pericolo, gli altri subito lo seguivano. Cessato il pericolo, la gente rientrava e la vita riprendeva. Nessuno sospettava che quelle case così accoglienti e piene di cibo potessero trasformarsi nella loro tomba: era sufficiente che qualcuno le capovolgesse e i malcapitati sarebbero rimasti intrappolati dentro, senza nessuna via di scampo. Se fosse capitato a una sola delle loro case, gli altri subito sarebbero fuggiti ma poi sarebbero ritornati: indifferenti, avrebbero continuato la loro vita.
  Quell’immagine non era solo frutto della mia fantasia, ma anche il ricordo di un incubo ricorrente che di notte mi faceva sobbalzare: come quello della tigre che, ogni sera, mi aspettava in cantina appostata sul tavolo di lavoro di mio padre. Aspettava che io scendessi a prendere il bottiglione di vino per la cena e mi seguiva ringhiando. Risalivo le scale rivolto all’indietro, per tenerla calma, con il bottiglione aggrappato al corpo. I suoi occhi mi terrorizzavano. Ero in un mare di sudore e pieno di paura. Mi svegliavo tremando.
  Rannicchiato sull’albero di cachi, pensavo alle cose che non avevo più, che mi erano state tolte. I giocattoli erano tutti spariti: mi distraevano dallo studio e, quando giocavo, perdevo tempo. Erano stati sostituiti dal libro di Pinocchio, il regalo di Natale, e la sera, quando mio padre tornava dal lavoro, dovevo leggerlo ad alta voce. Vedevo solo le parole attraverso le lacrime. Non pensavo al racconto, ma speravo solo che quel momento finisse. A scuola avevo difficoltà a leggere a voce alta, ma era solo perché provavo una grande vergogna e non volevo farlo.
  Il rifugio sull’albero di cachi non era per niente comodo e dopo un po’ di tempo sentivo un formicolio alle gambe che mi costringeva a scendere. Poi il fastidio cessava e potevo di nuovo camminare. Mia madre, dalla porta di casa, continuava a chiamarmi perché era ora di fare i compiti.  Rientrando in casa, sentivo solo il rumore dei miei passi.


Umberto Siboni © 2018
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