Seconda
media. A scuola le cose non andavano proprio bene. Distratto, assente,
con la testa per aria. Insomma, «l’ultimo buco della cintura»: queste
le parole che sentivo dire dalla professoressa di lettere a mia mamma,
quando la mandava a chiamare. A casa le cose non andavano meglio. Per
ogni virgola storta, si passava dalle urla alle mani. E questo quasi
tutti i giorni.
Una sera mi ero ridotto a dover preparare all’ultimo
momento un disegno a colori da consegnare il giorno dopo. L’insegnante
di disegno voleva vedere come lavoravamo a casa: era una signora già in
là con gli anni, paziente, che infondeva pace e serenità durante le due
ore settimanali che trascorreva con noi.
Ma quella sera i problemi non mancavano. La matita dove
era? E i colori? Il foglio era di mia sorella, ma dei colori a tempera
trovai solo un tubetto bianco, uno nero e uno rosso; gli altri colori
erano inutilizzabili perché completamente secchi. Il tema era una copia
dal vero, una natura morta composta con oggetti recuperati in casa.
In camera mia c’era un vaso appoggiato su una mensola. In
cucina trovai una mela tutta bacata che veniva dal melo del nostro
orto. Le mele erano sì bacate, ma molto buone. Mio padre continuava a
trattare le piante con prodotti diversi tanto da cambiare colore ai
tronchi e alle foglie; i tronchi erano diventati bianchi e le foglie
blu, ma i bachi erano sempre presenti: non c’era nulla da fare.
Fuori imbruniva, accesi la lampada sul comodino e sdraiato
sul letto, iniziai a disegnare. Non era difficile: un po’ di
prospettiva, la mela davanti al vaso un po’ di lato, e i contorni del
ripiano in basso per dare il senso dello spazio. In cucina mi procurai
un piattino per mescolare i colori, un bicchiere pieno d’acqua per
diluirli e per pulire l’unico pennellino trovato.
Era ormai notte fonda quando decisi che il disegno era finito. Tutto
pieno di sfumature: dal bianco al rosso e dal rosso al nero. Scrissi il
mio nome con il colore nero in basso, sulla destra, e mi addormentai.
Il giorno seguente ci fu la consegna. Vidi i lavori dei
miei compagni, tutti pieni di colori. Il più bravo della classe aveva
consegnato una natura morta che poteva essere incorniciata, talmente
era bella: uva, mele, pesche e, appoggiati su un pizzo, un fiasco e un
bicchiere con un po' di vino. Quando consegnai il mio, l’insegnante, la
signora Rossi, mi guardò sorpresa. Mi chiese solo: «L’hai fatto tu?».
A fine anno, nell’albergo più importante della città, in
pieno centro, venivano esposti i lavori più significativi di quell’anno
scolastico: disegni e dipinti. Erano presenti tutte le scuole della
città, anche le scuole superiori. Ci andai in bicicletta, la cosa mi
incuriosiva.
Le pareti dei corridoi erano tappezzate con i lavori più
belli, era come essere in una galleria d’arte. Cercai i lavori del mio
compagno di classe. Li trovai e rimasi in ammirazione: erano veramente
belli.
Più avanti c’erano i lavori dei liceali e in mezzo un
quadretto con una natura morta, un vaso e una mela, tutto rosso,
incorniciato.
Incontrai l’insegnante di disegno, mi prese da parte e,
commossa, mi chiese di poter tenere per sé il quadretto rosso. Mi disse
che era il lavoro che l’aveva colpita di più.
Sapere che lo voleva per sé, mi riempì di gioia.
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