I CINQUE PONTI

SENTIMENTO

Le rose

Forlì 1962

”photo”

  Erano gli oggetti più belli che vedevo nella mia cantina: un biplano grigio rivestito di stoffa e un bimotore in legno massiccio.
  Li aveva costruiti mio padre, forse prima che io nascessi. Erano più grandi di me e rifiniti in ogni dettaglio. Ogni pezzo era costruito alla perfezione: le ruote, i tiranti, i profili delle ali, i finestrini di vetro che permettevano di vedere le file di poltroncine all’interno, i seggiolini dei piloti, le leve di comando, i timoni mobili e le eliche anch’esse fatte a mano: mancavano solo i motori e i piloti. Avevano però un difetto: non potevano volare perché erano troppo pesanti.
  Mentre mio padre era al lavoro li tiravo giù dallo scaffale e sognavo di volare insieme a loro. Ero io il pilota e volavo in cantina e fuori in giardino tenendoli come potevo. Ma ero troppo piccolo e i due aerei, colpo dopo colpo, finirono col rovinarsi. Cercavo di rimediare ai danni con la colla per la carta e con qualche intruglio rimediato in casa che avesse il colore della parte danneggiata.
  Un giorno non li vidi più. Non erano al loro posto. Cercai ovunque, ma niente, non c’erano. Forse mio padre si era accorto che erano rovinati e li aveva portati in solaio dove non potevo salire per via di quella scala a pioli di legno che bisognava ogni volta piazzare a cavallo delle scale. Non ebbi il coraggio di chiedere dove li avesse portati o che fine avessero fatto: avrei ammesso la mia colpa, di averli rovinati.
  Di loro restava una grande nostalgia. Non mi davo pace. Quegli aerei mi mancavano ed ero triste per la loro misteriosa scomparsa. I miei se ne accorsero. Non mi dissero che li avevano eliminati per evitare che io perdessi tempo con quelle cose.
  Una sera mio padre tornò a casa dal lavoro con un plico di carta. Era il piano, in scala uno a uno, di un bimotore: un aeromodello tutto da costruire, con apertura alare di un metro e venti. Per farlo occorrevano solo dei listelli di legno e della carta per rivestirlo.
  In cantina avevo preso dimestichezza con gli attrezzi. Cacciaviti, martelli, lime e pialle non mancavano: c’era di tutto. Mancavano solo i listelli.
  In un angolo trovai un mucchio di canne che mio padre utilizzava in giardino, per sostenere le rose. Con la lama di un coltello le sezionai prima in due, poi in quattro parti ed ecco fatti i listelli. Chiesi a mia mamma un rocchetto di filo marrone, ma doveva essere robusto, per fissare tra di loro i listelli. Il lavoro di montaggio poteva finalmente avere inizio.
  Già da piccolo avevo un brutto difetto: quando iniziavo una cosa che mi interessava, vedevo solo quella e dimenticavo il resto. Era il grande tormento dei miei genitori, non sapevano che cosa fare. Anche la maestra se ne era accorta. Riuscivo con gli occhi a prestare attenzione a quello che diceva, ma con le mani, sotto il banco, modellavo animali, aerei, persone e oggetti usando la plastilina che portavo da casa. La maestra diceva ai miei genitori: «Suo figlio mi guarda, ma è sempre assente». Un giorno però mi scoprì perché i miei compagni, guardandomi, ridevano. Sotto il banco, al posto dei libri e dei quaderni, c’era un esercito di cavalli e cavalieri tutti fatti in plastilina: fu un dramma. Mia mamma venne subito convocata: da quel giorno, prima di andare a scuola, avrebbe dovuto ispezionare le mie tasche per controllare che non vi fossero, nascoste, tracce di plastilina. Ne bastava una pallina ed ecco, un cavallo galoppava sotto il banco. Non riuscivano a tenermi sotto controllo: ogni volta riuscivo a inventare qualcosa che mi portava lontano dalla scuola, dallo studio, da quelle che dovevano essere le mie priorità.
  Costruire quell’aereo, in realtà, era un’opportunità che i miei genitori mi davano per farmi ritrovare l’interesse e la concentrazione, anche a scuola. Insomma, era una sottile forma di ricatto: «Ti lasciamo fare l’aereo, ma tu devi comportarti bene a scuola e anche a casa».
  Ci volle un po’ di tempo, ma alla fine l’aereo fu terminato. Non aveva le ruote e i motori, ma secondo me poteva volare. Lo rivestii con la carta dei giornali, trovati in casa, tenuta insieme con una colla preparata con acqua e farina. L’aspetto era bello, non però come quello degli aerei che aveva fatto mio padre.
  La nostra casa era costituita da un piano terra e un primo piano con un balcone che si affacciava sul giardino. Tre metri e mezzo di altezza sarebbero stati più che sufficienti per collaudare l’aereo e fargli fare un bel volo.
  Un pomeriggio, senza attirare l’attenzione di mia madre, portai l’aereo sul balcone. Non sapevo che fosse necessario bilanciarlo, sapevo solo che doveva volare. Uno, due, tre e lo lanciai. Non mi accorsi che la vicina di casa, nel frattempo, era uscita: incominciò a strillare come un ossesso, spaventata, chiamando ad alta voce mia mamma. L’aereo si girò su sé stesso alzando e abbassando ripetutamente il muso. Sembrava seguisse le urla della vicina. Puntò diritto verso terra e si accartocciò in un’aiuola tra una rosa e l’altra, spezzando alcuni rami e alcuni fiori. Il volo durò solo alcuni secondi.
  Le rose erano la grande passione di mio padre. Già con il pallone da calcio avevo avuto i miei problemi, ma questa volta era più grave. Mia madre uscì richiamata dalle urla della vicina. Era spaventata e non capiva cosa avessi combinato. Quando capì le presi prima da lei e la sera anche da mio padre. Ero la disperazione della casa, continuava a ripetere mia mamma. Quello che restava dell’aereo venne utilizzato per accendere il fuoco, nella stufa in cucina.
  Provai di tutto: delusione, amarezza, incomprensione, sconforto, rabbia: voglia di non essere più lì.


Umberto Siboni © 2018
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