I CINQUE PONTI

SENTIMENTO

Il tema

Forlì 1965

”photo”

  Il Natale si avvicinava: ero all’ultimo anno della scuola media. La mia attività scolastica era, a dir poco, un disastro. Apatia totale: nessun interesse per le materie e nessuno stimolo per reagire. Autostima a zero. I genitori avevano adottato il pugno duro e gli insegnanti finirono col rassegnarsi. Gli studi non erano fatti per me.
  Mio padre, a quell’epoca, guidava un camion di un corriere e trasportava merce per conto di diverse officine nella periferia della città. Conosceva bene un magazziniere di una ditta che produceva stufe a gas.
  Riuscì a farmi assumere come apprendista meccanico e in men che non si dica dai banchi di scuola mi ritrovai con indosso una tuta blu.
  Mi misero davanti ad un trapano col compito di filettare un regolatore del gas. Lavoro in serie, dalla mattina alla sera. La cosa però mi piaceva, anche perché avevo tutto il tempo per pensare non solo a quello che stavo facendo, ma anche ad altro.
  Ricordavo mia madre che ad ogni occasione diceva: «Studia, se no dovrai andare a badare le pecore».
  A me fare quel lavoro piaceva e non lo trovavo per nulla spregevole.
  Se ne accorse anche il capo officina e nell’arco di alcuni mesi, dopo aver lavorato su tutte le macchine utensili, mi trasferì nel reparto dove si programmavano i torni automatici. In quella fabbrica era il massimo a cui poter aspirare.
  Il direttore della ditta, tramite il magazziniere, fece capire a mio padre che la licenza media sarebbe stata necessaria per il mio futuro professionale e così mi iscrissi a una scuola serale per ottenere la licenza come privatista.
  Di giorno al lavoro e la sera di nuovo sui banchi: in casa rientravo solo per mangiare e dormire. I miei non potevano più dirmi nulla. Qualcosa dentro di me era cambiato e vedevo sia il lavoro sia la scuola alla mia portata.
  A scuola la lingua italiana era sempre stata, per me, la materia più ostica. La grammatica, i verbi e l’ortografia mi aspettavano al varco e ne uscivo sempre a pezzi. Le doppie non mi entravano in testa e le sbagliavo quasi tutte.
  Una sera l’insegnante ci diede un tema a nostra scelta, da sviluppare in uno scritto lungo due colonne. Parlai del lavoro e degli stati d’animo degli operai: a lavorare c’erano delle persone, non dei semplici numeri ricoperti da una tuta.
  Una colonna e mezzo e consegnai il foglio.
  Alcune sere dopo i temi corretti vennero restituiti: il mio non c’era. L’insegnante disse che ne aveva trattenuto uno e che l’avrebbe letto ad alta voce per far capire, a suo dire, un modo corretto di scrivere. Sottolineò la struttura, i contenuti, l’uso dei tempi. Solo qualche errore ortografico qua e là che poteva facilmente essere superato.
  Quel testo che lesse era quello che avevo scritto due sere prima. Ero contento, ma qualcosa mi diceva di non fermarmi lì, di andare oltre. Potevo dare di più e i risultati ottenuti in fabbrica mi incoraggiavano.
  I torni automatici erano quattro ed eravamo in due ad occuparcene: erano programmati per produrre elementi particolari che in commercio non si potevano trovare come viti, dadi e meccanismi speciali, fatti in alluminio, rame o acciaio.
  Il mio collega lavorava su quelle macchine da più di cinque anni. Nei miei confronti aveva però un atteggiamento strano. Quando c’era da programmare un tornio, per produrre un nuovo pezzo, prendeva su e spariva. Tornava quando avevo finito e controllava che tutto fosse stato fatto bene. Controllava con il micrometro anche i pezzi prodotti per vedere se fossero nelle tolleranze prescritte. Capivo che c’era un conflitto, una sorta di gelosia forse perché, quando le macchine erano solo tre, era l’unico responsabile. Parlava poco e faceva di tutto per trovare qualche difetto in quello che facevo. I tentativi per scambiare qualche parola con lui finivano nel silenzio e nel suo volto appariva uno strano ghigno. Diceva che non parlavo come gli altri, in fabbrica, ma parlavo come gli studenti e non capiva quello che dicevo. Era a disagio.
  Gli esami per la licenza media andarono bene: fu una bella settimana fuori dalla fabbrica.
  Il magazziniere, che conosceva bene mio padre, un giorno, chiacchierando con me durante una pausa, mi disse che per quel lavoro ero sprecato e che il mio futuro, in officina, sarebbe stato uguale al mio presente, che sarei rimasto come il mio collega: bravo sì, ma sfruttato, senza avvenire. L’entusiasmo e l’energia che mettevo nella mia attività avrebbero fatto nascere attorno a me solo invidia e antipatia. Mi stavo creando il vuoto attorno. Avrei dovuto uniformarmi alla mentalità che c’era in fabbrica, senza andare oltre anche perché, solo con la licenza media, non avrei ottenuto nulla di più. Erano finiti i tempi dei pionieri che si erano fatti tutti da sé.
  Era vero. Quello che sentivo dentro aveva poco a che vedere con quell’ambiente. Non ero disposto a cedere; ricordavo quel tema scritto tempo prima: “Fare bene le cose è importante, ma non è tutto: lo fanno anche le macchine e, in tanti casi, lo fanno meglio. È necessario andare oltre. Non si può ridurre l’uomo solo a questo, ha bisogno di altro, ma anche in questo altro non può essere lasciato solo. La solitudine è un tarlo che polverizza l’esistenza.” Dovetti riconoscere, con un velo di tristezza, che quell’ambiente non mi avrebbe aiutato, non in quel momento.
  Quell’autunno lasciai l’officina e mi iscrissi a una scuola tecnica superiore.
  Con i soldi guadagnati e risparmiati potei pagare l’iscrizione e i libri di testo. I primi due anni vinsi anche la borsa di studio assegnata ai migliori allievi. Questo mi garantì un minimo di indipendenza dai miei genitori.
  Il triennio che seguì fu più complesso. Per frequentare la sezione di elettronica dovetti cambiare non solo sede scolastica ma anche città, e tutte le mattine ero in stazione a prendere il treno. Tornavo nel tardo pomeriggio e mi aspettavano ancora diverse ore di studio. Arrivai alla maturità non pienamente convinto degli studi fatti: l’elettronica era interessante, ma la scelta non era stata totalmente mia. Ancora una volta la mancanza di libertà nel decidere del mio futuro mi portò a provare una sorta di nausea verso quel tipo di tecnologia, ma ormai ero su quel binario.


Umberto Siboni © 2018
tutti i diritti sono riservati


Condividi il post

Lascia un commento

  Il tuo indirizzo email e il tuo commento non saranno pubblicati.
  * I campi obbligatori sono contrassegnati

 Nome      : *

 E-mail     : *

 Sito web  :

 Commenti: *