I CINQUE PONTI

SENTIMENTO

La creta

Breganzona 1975-2005

”photo”

  Avevo iniziato da piccolo a giocare con la creta. Era lo strumento ideale che mi permetteva di concretizzare tutte le forme che nascevano dalla mia fantasia: dai giocattoli alla figura umana, dagli animali agli oggetti presenti in natura e nella vita quotidiana. Dal nulla apparivano aeroporti con tutti i tipi di aerei, eserciti di cavalieri che si affrontavano in battaglia, macchine e autobus pieni di gente che si muovevano in città. Preferivo la terra piuttosto che disegnare con le matite sui fogli di carta. Era un continuo fare e disfare usando la terra che trovavo in giardino. Mio padre non vedeva la cosa di buon occhio perché coltivava le rose e faceva l’orto: io invece scavavo buche per trovare la terra migliore. Dovevo fare le cose di nascosto ma non era facile, lui trovava tutto ed erano guai.
  Gli anni dell’infanzia trascorsero in mezzo alla terra e giunto all’età dell’adolescenza i miei interessi si dovettero spostare. Modellare la terra era ritenuta in casa un’attività che non mi avrebbe portato da nessuna parte: era solo un gioco per bambini. Non era immaginabile che potesse diventare una professione. Inoltre, mia madre sosteneva che le mani, tenendole sempre in mezzo alla terra, si sarebbero rovinate. Abbandonai la terra e in casa non se ne parlò più.
  Ripresi a modellare quando ero già adulto. L’occasione si presentò all’avvicinarsi del Natale durante una cena con amici, tutti sposati con prole. La conversazione si concentrò sui figli e, come tradizione natalizia vuole, sulla preparazione del presepe. Il compito era solitamente affidato ai bambini; noi genitori potevamo aiutarli per le questioni tecniche, come mettere le luci o trovare una bella radice per la grotta.
  «Perché quest’anno il presepe non lo facciamo noi, tutto intero? Dalle statuine alla grotta e ci mettiamo anche un villaggio?» proposi.
  Ognuno di noi ricordava di aver costruito da bambino qualche casa o capanna da mettere nel presepe. Decidemmo di buttarci nell’impresa. Il mio compito sarebbe stato quello di fare le statuine, mentre gli altri avrebbero dovuto occuparsi della parte scenografica: la grotta, la fontana e le tipiche case della Palestina all’epoca di Gesù.
  Avevamo allestito il cantiere nella cantina di casa mia. Un mese e mezzo di lavoro: ci trovavamo quasi ogni sera, e finimmo in tempo per Natale. Viste le dimensioni finali del presepe, ci rendemmo conto che non sarebbe entrato in nessuna delle nostre case. Avevamo un po' esagerato e fummo obbligati a dividerlo in tre parti per poterlo far uscire dalla cantina. Il presepe venne esposto in una chiesa in centro città, l’anno seguente in un ospedale. La struttura e le case erano state costruite in polistirolo espanso; dopo qualche anno si erano seriamente danneggiate e dovemmo eliminarle. Conservai solo le statuine, chiuse in cantina dentro alcune scatole.
  I personaggi del presepe furono l’inizio del mio impegno con la ceramica e la sorte volle che anche l’ultimo mio lavoro con la creta terminasse con un presepe. In quel periodo, durato trent’anni, modellai centinaia e centinaia di statuette, molte delle quali per altri cinque grandi presepi. Il lavoro che più mi appassionò fu la storia del costume, che mi portò a realizzare un centinaio di pezzi. Ogni figura rappresentava un abito legato a un preciso momento storico: dagli Egiziani agli anni Settanta. Ogni statuetta aveva un volto e su ogni volto c’era un’espressione.
  Nei primi lavori, volevo che lo sguardo rappresentato sui volti fosse pacato, un po' triste, che si perdesse lontano e non segnato da emozioni o da sentimenti: questi ultimi non mi interessavano perché rappresentavano la memoria di un evento, positivo o negativo che fosse. Preferivo l’espressione di un volto raccolto e pensante, che non si legasse a nulla e a nessuno.
  Temevo che i ricordi dell’infanzia riaffiorassero, erano ferite che si potevano riaprire e che prima o poi sarebbe capitato.
  E così avvenne mentre modellavo un gruppo, composto da nove personaggi, i volti esprimevano qualcosa di tetro: la violenza e la cattiveria, l’immagine del male. Lo realizzai in un tempo brevissimo. I ricordi lontani erano riaffiorati e in quel momento mi illusi che fosse un modo per sdrammatizzarli ed elaborarli. Lo esposi in pubblico una sola volta e rabbrividivo ogni volta che lo guardavo: i sentimenti visibili in quei volti erano stampati nella mia memoria e appartenevano al mio vissuto. Erano insopportabili. Avevo chiamato quel gruppo “l’abisso”. Solo un personaggio si distanziava dagli altri, ma non aveva molte alternative: soffriva e basta, e gli altri lo braccavano invitandolo nelle tenebre dell’abisso. Da quando lo chiusi in un cartone, in cantina, quel gruppo non lo volli più vedere.
  Col tempo, i volti dei miei personaggi cambiarono, ma in forma lieve e delicata. Era lo stupore per la vita e per quello che di buono offriva. Era la gioia di una mamma per il suo bambino. Era l’espressione vista sul volto di Marta, mia moglie, quando nacquero le nostre due figlie.
  È vero, ciò che si legge in un volto può far sorridere o piangere. Una sera vidi le lacrime scendere dal volto di un uomo dopo essersi fermato davanti ad un presepe che avevo esposto in Cattedrale. Il presepe aveva la forma di un timpano. Nella parte superiore c’erano Maria con in braccio Gesù, da una parte Giuseppe e dall’altra un angelo; in basso era rappresentato il portico di Salomone dove si incontravano i primi cristiani. Nell’arcata centrale del portico c’era Lazzaro immaginato nel momento della sua resurrezione. Dalla sua bocca usciva solo un urlo e le sue mani erano aggrappate al terreno. A destra e a sinistra di Lazzaro, sempre sotto il portico, gente che si interrogava sull’avvenimento, dal più sorpreso al più scettico, tutti confrontati con uno dei miracoli più importanti fatti da Cristo. Quell’uomo in lacrime davanti al presepe quella sera non mi notò: credeva di essere solo, si era emozionato e un sentimento molto forte si era impadronito di lui. Il fatto mi colpì.
  Dopo l’ultimo presepe, la cui realizzazione mi occupò per diversi anni, entrai in un periodo di crisi. Avevo l’impressione di non aver più nulla da dire. I volti delle mie nuove statuette diventarono anonimi e li vedevo tutti uguali. Il massimo che potevo fare era farli assomigliare a qualcuno, anche incontrato casualmente per strada, ma non esprimevano nulla, erano vuoti.
  Decisi di concedermi una pausa. Ero anche stanco di trascorrere la maggior parte del tempo libero nel mio studio. La professione che mi dava da vivere e la ceramica non erano più conciliabili: all’inizio l’una aveva bisogno dell’altra e questo mi aiutava a stabilire un equilibrio. Poi mi accorsi di aver sacrificato, in tutti quegli anni, troppe cose e questo mi era diventato insopportabile. L’età della pensione si avvicinava e il mondo della tecnologia si allontanava trascinando con sé anche il mondo della ceramica e delle statuette.
  Forse fu un errore, una scelta affrettata o forse fu semplicemente la scelta più giusta: non modellai più nulla. Sentivo che dovevo voltare pagina.


Umberto Siboni © 2018
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