I CINQUE PONTI

SENTIMENTO

Il violino

Breganzona 2010

”photo”

  Finalmente in pensione. Era giunto il tempo di aprire il cassetto e tirare fuori il classico sogno. Di attività, oltre al lavoro, ne avevo avute veramente tante: la ceramica, la pittura, l’aeromodellismo, la liuteria. Tutte svolte seriamente, ma adesso era diverso. La preoccupazione era tenere sveglia la mente. I consigli erano tanti: imparare una lingua, viaggiare, fare sport, volontariato. Cercavo qualcosa che mi costringeva a partire da zero. Decisi: suonare il violino.
  Di musica non sapevo quasi nulla, a scuola non si studiava. Uno spartito non sapevo leggerlo e suonavo la chitarra a orecchio. Avevo seguito un corso di chitarra imparando tutto a memoria. Non riuscivo a leggere e suonare nello stesso momento.
  Vent’anni prima, attratto dalla liuteria, avevo costruito un violino, ma l’avevo pagata cara. Mi ero rovinato un polso scavando il legno con la pialla e venni operato. Il chirurgo mi disse che il problema poteva ripetersi a causa di una debolezza strutturale e mi consigliò di appendere i violini al chiodo. Uno, però, l’avevo portato a termine. Era chiuso da vent’anni nella sua custodia. Riaprendola non sapevo che cosa avrei trovato: forse i tarli, nel frattempo, se l’erano mangiato. Invece era lì come l’avevo lasciato.   Decisi di prendere qualche lezione. Sapevo che un errore di impostazione me lo sarei portato dietro per sempre; correggerlo in un secondo tempo sarebbe stato molto difficile. Alcuni amici mi consigliarono un insegnante che avrebbe potuto fare al caso mio. Telefonai e ci demmo appuntamento per la prima lezione. Nell’arco di un anno di insegnanti ne cambiai tre. Il primo voleva parlare di tutto tranne che di musica, il secondo non era puntuale e questo mi irritava, il terzo, vista la mia età, si accontentava di quel poco che riuscivo a fare e non si andava oltre.
  Mi consigliarono di rivolgermi alla vicina scuola di musica, forse facevano corsi anche per adulti. Entrai in segreteria, mi accolse una signora anziana. Le spiegai il caso e mi diede un formulario da riempire. Ci tenne a chiarire che mio nipote doveva avere più di sei anni. Le dissi che la cosa riguardava me e non mio nipote. Mi guardò male, mi congedò lasciandomi il formulario in mano aggiungendo che le iscrizioni erano già chiuse e che dovevo presentare la domanda per l’anno successivo. Continuò con il suo lavoro senza aggiungere una parola. Uscii stravolto.
  Ero scoraggiato: da una parte capivo che, mancandomi le basi, ci sarebbero voluti anni prima di eseguire un brano fatto bene e dall’altra volevo suonare la musica che preferivo, quella irlandese. La musica classica mi piaceva ascoltarla, ma suonarla no, la sentivo decisamente fuori dalla mia portata. La sentivo morta così come erano morti i suoi autori. Mi attirava la musica contemporanea ma era troppo difficile e fuori dalle mie possibilità. Inoltre, mi era venuto anche uno strano mal di schiena, sicuramente dovuto all’età.
  I problemi erano tanti: leggere la musica, trovare la nota sulla corda, tenere il tempo, la postura e per finire quello strano mal di schiena.
  Trovai finalmente una signora che suonava il violino in un gruppo di musica popolare; conosceva bene anche la musica irlandese e quella ebraica. Decidemmo di concentrarci solo su un pezzo non troppo difficile e di lavorarci sopra, unire cioè l’utile al dilettevole.
  L’idea era buona e le lezioni andavano bene, capivo il suo impegno nel voler insegnarmi le basi per poter suonare il violino, ma una mattina avvenne l’imprevisto.
  Iniziò la lezione: il pezzo l’avevo studiato e lo eseguii senza interruzioni. Mi chiese di ripeterlo e lo rifeci senza errori: ero soddisfatto.
  «Adesso suonalo con sentimento» disse.
  Mi bloccai. Con sentimento? Perché con sentimento, e poi quale? Dovevo sceglierne uno o dovevo seguire quello che sentivo in quel momento? Oppure era un’espressione musicale con un suo significato ben preciso? In quel momento mi sentii come un idiota ed ebbi solo la forza di chiederle di suonare lei, per farmi capire come andava fatto. Mi guardò, non disse nulla, prese il violino e suonò. Si muoveva come rapita da chissà quale forma di estasi, ma dal suo violino uscivano solo le note che erano scritte sullo spartito. Era comunque bello ascoltarla. Sempre come un idiota ripetei il brano cercando di imitarla.
  «Ma questo brano non ti dice nulla? Non ti suscita un’emozione, un sentimento? Perché allora non lo tiri fuori?» chiese perplessa.
  Ero di ghiaccio, pietrificato. Altro che tirar fuori sentimenti: mi aveva gettato in una dimensione che per me, in quel momento, era proibita. Perché, suonando, avrei dovuto manifestare così palesemente un sentimento? E perché avrei dovuto farlo in quel momento, di fronte a lei? Non era sufficiente ripetere le note?
  Idiota ed egoista: non ero disposto a condividere il benché minimo sentimento. Capii in quel momento che l’imbarazzo era reciproco. Il mio, perché avevo censurato il rapporto che doveva esserci tra me e quello che suonavo e il suo perché aveva di fronte un muro. Sentii che suonare poteva diventare un problema. Inventai non ricordo più quale scusa e tornai a casa. Le lezioni finirono lì. Decisi di suonare per conto mio, ma non era più come prima: suonare un brano non era solo ripetere delle note, ma implicava anche me; non potevo evitare l’ostacolo incontrato nell’ultima lezione. Mi sentii vecchio, non solo nelle cellule, ma anche dentro.
  La ruggine era entrata nel mio cuore.
  Il dolore alla schiena cresceva sempre di più. Mi venne un dubbio. Che fosse dovuto al violino? Alla postura? Lo rimisi nella custodia e dopo neanche una settimana quel dolore che mi tormentava da cinque anni sparì.
  Da allora non toccai più il violino; rimase chiuso nella sua custodia.


Umberto Siboni © 2018
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