I CINQUE PONTI

COSCIENZA

Il veliero

Forlì 1960

”photo”

  Fu durante la preparazione agli esami per la licenza media che entrai in quel quartiere. Era il periodo in cui lavoravo di giorno e frequentavo la scuola serale per prepararmi agli esami come privatista.
  Avevo quindici anni e in classe ero il più giovane. La maggior parte dei miei compagni erano adulti e venivano da diversi quartieri della città e anche da località vicine. C’erano, tra di loro, muratori, meccanici, camerieri, una commessa con il suo fidanzato falegname, uno spazzino del comune. Quando tornavo a casa in bicicletta facevo un tragitto di strada insieme a un muratore che veniva dal sud, Salvatore. Giunti al bivio per imboccare la strada nella quale abitavo, lui proseguiva.
  Erano ormai prossimi gli esami e visto che in matematica me la cavavo bene, Salvatore mi chiese se gli potevo dare una mano a capire come si applicava il teorema di Pitagora e come si preparavano le equazioni per risolvere i problemi di geometria: era una materia che non gli entrava in testa.
  Ci demmo appuntamento per un sabato mattina, a casa sua. Lui abitava nella seconda casa della “baia del re”, il quartiere vicino, a qualche centinaio di metri da casa mia.
  Quando ero bambino, tra i nostri due quartieri c’era guerra. Si erano formate due bande e gli scontri spesso erano cruenti. In quella zona non ci avevo mai messo piede e l’idea di entrarci, anche se adesso tutto era tranquillo, mi agitava.
  Salvatore abitava con sua madre, vedova, al primo piano di una di quelle palazzine, tutte uguali. La scala, con la ringhiera in cemento, era all’esterno della casa. Il campanello era immurato. C’era solo un numero sulla porta, senza nessun nome.
  Suonai e Salvatore venne ad aprirmi. Si entrava direttamente in un locale pieno di mobili, c’era una branda che utilizzava per dormire e una cucina a legna che fungeva anche da riscaldamento. Sua madre aveva una cameretta, c’era un bagno ed era tutto. Ci sedemmo attorno a un tavolo nel centro della stanza. Sopra al tavolo pendeva una lampada formata da una sola lampadina: era accesa perché il locale era buio. Sua madre, scusandosi, mi chiese se volessi qualcosa da bere; in mezzo al tavolo c’era una scatola piena di biscotti che aveva procurato per l’occasione. Era vestita di nero con i capelli ormai bianchi tenuti dietro con una spilla di metallo. Mi colpì la sua gentilezza e anche Salvatore era tutto premuroso. Dissero che in quella casa era molto tempo che non entrava una persona estranea e che non ricevevano mai visite.
  Sopra un mobile c’era un veliero da cui non riuscivo a staccare gli occhi. Era bellissimo, con tutti i particolari fatti alla perfezione: un tre alberi con le vele spiegate. Salvatore mi disse che l’aveva costruito lui, facendo a mano tutti i pezzi. Disse che si era ispirato a una delle tre caravelle usate da Cristoforo Colombo quando scoprì l’America. L’aveva vista in un disegno, ed era partito da lì. Non ci potevo credere, ma era vero: quel veliero l’aveva fatto partendo da un disegno trovato su un libro di testo delle scuole elementari.
  Iniziammo a studiare. La mattina trascorse velocemente e fui soddisfatto del lavoro fatto. Salvatore mi disse che adesso la geometria gli sembrava più facile. Aveva capito come si trasformavano le equazioni: non era poco.
  Ci salutammo, sua madre non finiva di ringraziarmi e tornai a casa.
  Avevo davanti agli occhi quel veliero. Solo un genio poteva fare un lavoro così. Salvatore aveva interrotto gli studi dopo la morte di suo padre e doveva pensare a sua madre perché era l’unico figlio.
  Gli esami andarono bene anche per lui. Grazie alla licenza media trovò un lavoro a Milano e, con sua madre, partì. Di lui non seppi più nulla. Un anno dopo il vecchio quartiere “la baia del re” venne completamente demolito per far posto a nuovi palazzi, completamente anonimi. Di quel quartiere mi rimase un nome e un veliero costruito alla perfezione.


Umberto Siboni © 2018
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