I CINQUE PONTI

COSCIENZA

Lo zio don Angelo

Forlì

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  Era il fratello di mio padre, il secondo di cinque figli appartenenti a una famiglia contadina. Il loro padre, mio nonno, aveva studiato agraria ed era stimato per la qualità dei suoi innesti; era richiesto dai contadini della zona quando giungeva il momento di innestare le piante da frutta. In casa era di fatto il “pater familias” e aveva il controllo totale sui figli e anche sulle loro scelte di vita. Padre e figli si davano del voi. Mio padre era il primogenito e, finiti gli obblighi scolastici, era stabilito che dovesse aiutare la famiglia nei lavori in campagna. A lui sarebbe piaciuto continuare gli studi, ma il suo ruolo era un altro e si doveva fare così. Il secondogenito, Angelo, sarebbe dovuto andare prete: così era nella tradizione contadina di una famiglia che si rispettasse. Entrò in seminario e lì restò tutta la vita prima come seminarista, poi come professore di fisica, matematica e astronomia. Quest’ultima materia lo interessava in modo particolare.
  Il Vescovo, visti i suoi incarichi e la natura della sua famiglia, lo inviò in una parrocchia che contava pochissime anime, in cima a una collina, in un’abitazione con annessa una chiesetta dove si celebravano le funzioni.
  Attorno al casale un cimitero, un boschetto, diversi campi coltivabili e un orto in grado di sfamare una decina di persone. In cima a quel colle poteva studiare e il posto si trovava a soli sei chilometri dal seminario. Come perpetua, lo zio don Angelo incaricò una sua sorella, Maria, sposata con due figli. Con sé volle anche suo padre e sua madre, che si sarebbero occupati dei campi e dell’orto. C’era lavoro per tutti.
  Mio padre e gli altri fratelli e sorelle una volta adulti si formarono una famiglia e trovarono casa in città.
  Fin da quando ero bambino era usanza, quasi ogni domenica, andare a trovare i nonni in cima alla collina. Mio zio don Angelo aveva un locale dove costruiva dei marchingegni incredibili che portava a scuola, durante le sue ore di lezione, per spiegare ai suoi allievi i principi fondamentali della fisica. C’era di tutto: dalla radio galena al rocchetto di Ruhmkorff per generare scariche elettriche. Costruì anche una seconda macchina per generare i fulmini: questa volta la carica elettrostatica avveniva per trasporto di elettroni tramite una cinghia, che si caricava per strofinio, mossa da un motore elettrico. Il sistema permetteva di ottenere scariche di lunghezza superiore ai dieci centimetri. Sugli scaffali si potevano trovare oggetti di ogni tipo: valvole, resistenze, condensatori, viti e bulloni. C’erano diversi trapani, un tornio a cinghia e attrezzi vari.
  Attorno alla casa, nel boschetto, appesi agli alberi, erano sistemati diversi strumenti meteorologici che lui stesso aveva costruito: misuratori di temperatura, di pressione, di precipitazioni atmosferiche e anche del vento.
  Mio zio aveva costruito un misuratore di terremoti, utilizzando un barile pieno di cemento e un sofisticatissimo marchingegno che terminava con un pennino che scriveva su una carta trascinata da un rullo. Questo strumento gli diede fama in tutta la regione. Quando si avvertiva una scossa tellurica in tanti correvano da lui, dai curiosi ai giornalisti, e don Angelo forniva a ciascuno le indicazioni sul sisma.
  La sua ricerca sui terremoti lo portò a costruire il misuratore più geniale che abbia mai visto. Era costituito da un’asta lunga circa un metro, tenuta in equilibrio orizzontale da un perno posto in modo asimmetrico; da un lato vi era una serie di magneti che si respingevano creando così l’equilibrio, mentre dall’altro l’asta terminava libera con un ago. Dietro all’ago, una scala tarata che doveva indicare la variazione del campo magnetico terrestre. Mio zio aveva notato che un terremoto era sempre preceduto da una variazione di campo magnetico, letta sulla scala di quello strumento. Lui diceva che era solo un’ipotesi collegare questi due avvenimenti ma fino a quel momento non aveva avuto smentite.
  La sua passione per l’astronomia lo portò a tagliare il tetto della chiesetta abbinata alla sua abitazione, per far posto a un osservatorio astronomico con tanto di telescopio, le cui lenti aveva cesellato lui stesso a mano. Era conosciuto come il “prete delle stelle”.
  Io non avevo l’età per capire tutto quello che lo zio faceva, ma, ogni volta che lo vedevo, lo riempivo di domande e lui, con estrema calma, mi spiegava quello che potevo capire. Era colpito dalla mia curiosità. Aveva anche un microscopio e ogni tanto mi mostrava parti di foglie o di insetti sezionati; era interessato anche alla biologia. Io ero incantato da tutto e ogni volta che si andava dai nonni, mi eclissavo nel suo laboratorio fino all’ora del rientro a casa.
  Ogni tanto lo zio era assente e mi dicevano che era a Roma, in Vaticano, per fare delle ricerche. Anni dopo venni a sapere il perché dei suoi viaggi. Aveva ottenuto dalla Santa Sede il permesso di praticare esorcismi. Era un esperto dell’occulto e venivano a incontrarlo da ogni parte d’Italia. Non fu facile rivederlo e parlare con lui: neanche quando ci ritrovavamo si poteva entrare in argomento, era molto discreto. Solo una volta mi raccontò, senza fare né nomi né luoghi, di alcuni fatti ai quali aveva assistito di persona. Ero già adulto e sposato con Marta, pure lei presente all’incontro. Ci parlò della presenza di Satana che si manifestava usando le persone di cui prendeva il controllo. I racconti erano raccapriccianti, da far venire la pelle d’oca. Questa presenza misteriosa, che rispondeva a tanti nomi, era capace di una violenza inaudita. Usava le persone come fossero zombi: dalle loro bocche uscivano parole sconosciute e incomprensibili. Tutti i casi si erano comunque risolti nel migliore dei modi, grazie anche al suo intervento.
  Alla fine, ci guardò con il suo solito sguardo sereno e gentile e ci fece una sola raccomandazione: l’unico modo per tenere lontano il male era quello di non prendere mai confidenza con lui. Ogni approccio, anche il più banale, poteva essere fatale. Aveva notato come all’origine di questi eventi fosse presente la volontà ingenua di quelle persone a lasciar entrare il male nel proprio cuore. Lo facevano per curiosità o per gioco, ma dopo non riuscivano più a liberarsene. Non erano più in grado di gestire la propria volontà.
  Questa raccomandazione in realtà non era un richiamo solo morale o etico, ma la chiave per capire tutta la vicenda legata alla presenza del male. Erano in gioco la libertà dell’uomo e la sua intelligenza. Due doni che la vita offre e che vengono plasmati dagli incontri, dalle situazioni, dalla cultura. In un solo gesto, l’uomo può buttare alle ortiche la gemma più preziosa, così come può accogliere nel proprio cuore la presenza più devastante. Il dramma è legato non al male, ma alla solitudine e al buio che ne è l’inevitabile conseguenza. La solitudine non la si risolve con la solitudine, ma con una presenza che può aiutare a capire sé stessi e il mondo.
  Dopo alcuni anni, lo zio si ammalò di un male incurabile: lo rividi quando ormai gli restava poco tempo da vivere. Era irriconoscibile e pensando a tutto quello che aveva fatto e dato nella sua vita, ne ebbi compassione. Dello zio don Angelo credetti fosse importante conservarne viva la memoria.


Umberto Siboni © 2018
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