I CINQUE PONTI

RAGIONE

Il dovere

Breganzona 2018

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  Tra tutte le parole utilizzate nel linguaggio quotidiano, la parola “dovere” è quella che sopporto meno. L’hanno utilizzata sin dal primo giorno per spiegarmi che cosa fosse la scuola e perché bisognasse studiare.
  Probabilmente questo concetto era quello che restava ancora radicato nelle coscienze del periodo fascista, appena concluso. Dei diritti si parlava poco anche perché non ce n’erano molti, ma dei doveri era pieno il linguaggio utilizzato sia in casa sia a scuola. Devi fare questo, devi fare quello. Tutto era imperativo. La vita era marcata da picchetti che avevano un solo nome: dovere.
  Anche la tavola doveva essere apparecchiata e la sera, a una certa ora, si doveva andare a letto. La mattina si doveva andare a scuola e il pomeriggio si doveva studiare. Detestavo fare le cose sotto imposizione: non lo sopportavo. Dovevo studiare, ma non potevo giocare. Dovevo andare a scuola, ma non potevo stare fuori con i compagni. Uscire dal cancello di casa era proibito, dovevo restare in casa. Gli altri bambini, in strada, giocavano a pallone e li potevo guardare solo da dietro l’alta cancellata sormontata da punte di ferro. Quando mi permettevano di uscire, ero sorvegliato a vista.
  La mia famiglia aveva costruito la casa in un quartiere di periferia lungo una strada costeggiata da villette appartenenti alla classe media, quella di chi, anche con grossi sacrifici, era riuscito a mettere da parte il necessario per tirare su quattro mura. Dopo la guerra, avere una casa era il sogno di tutti, una conquista sociale. Mio padre di questo andava orgoglioso.
  Ma c’era un problema. Il piccolo quartiere era sorto di fianco a un altro quartiere chiamato la “baia del re”. Era composto da quattro file di case popolari, tutte uguali, abitate da emigrati provenienti in maggioranza dal sud. In ogni casa c’erano quattro appartamenti ai quali si accedeva da una scala esterna.
  Lungo il confine tra questi due quartieri si trovavano una latteria e un tabaccaio. La latteria era l’unica nella zona e per andare a prendere il latte si doveva passare di lì.
  Quello che si diceva all’interno delle famiglie nel nostro quartiere era che noi bambini non potevamo mettere piede nella “baia del re”. Era abitata da persone sconosciute, lontane dalle nostre abitudini e dalle nostre tradizioni e spesso erano violente. Di fatto, questa ostilità era reciproca e tra i bambini si erano formate due bande, una per quartiere, che approfittavano di ogni occasione per scontrarsi a suon di sassi lanciati sia a mano sia con le fionde. Questi scontri si chiamavano “la battaglia” e, in alcuni casi, si arrivava anche alle mani. Qualcuno tornò a casa con ferite sanguinanti.
  Quando però un bambino aveva una bottiglia di latte in mano e doveva andare in latteria, si stabiliva una tregua: se non fosse stata rispettata, sarebbero intervenuti gli adulti. Mia madre era terrorizzata e forse questo spiegava il suo atteggiamento eccessivamente protettivo nei miei confronti, ma la mia situazione non cambiava: il mio territorio era segnato dai confini del giardino marcato da muretti, reti e cancelli alti più di due metri. Dovevo restare lì.
  La casa costruita con tanti sacrifici e tante speranze, per me e per mia sorella era in realtà una prigione. Così piccoli non riuscivamo a capire tutti i risvolti della vicenda, era così e basta. Solo più tardi capimmo che le nostre ferite, nate in quel contesto, avrebbero sanguinato per molto tempo. Fuori dalla scuola eravamo chiusi in casa; ricordo come il malessere che si respirava spesso portava a momenti di tensione e come questi fossero placati dai nostri genitori anche in un modo non certamente bello da raccontare. Ma quei tempi erano così e il modo di educare noi figli era solo quello.
  Finito il tempo dello studio sono entrato in quello che si chiamava il mondo reale nel quale il lavoro era il centro della vita, delle preoccupazioni, dell’interesse, del modo di pensare.
  Tutte le promesse e le speranze che vedevano la libertà, il confronto, la condivisione, la ricerca della verità e del modo migliore di vivere. nate nel periodo scolastico. si fermavano e si frantumavano varcando la porta del luogo di lavoro. Appena superata la soglia regnava il silenzio e di nuovo il dovere come condizione fondamentale. Il silenzio era rotto dalle voci di corridoio, unico strumento per far giungere le proprie lamentele in direzione. Raramente qualcuno ci metteva la faccia ed era opinione di tutti che, chi lo faceva, prima o poi avrebbe pagato.
  Il dovere cambiava nome a seconda della situazione e diventava obbedienza, obbligo, sottomissione, accettazione; bisognava fare le cose che ti dicevano e stare zitti: la parola d’ordine in bocca a chi pensava di comandare era: “adesso fate, dopo vedremo”. I responsabili stessi dicevano che erano schiacciati dalla volontà di chi stava sopra di loro. Una catena che non aveva fine e nelle cui maglie dovevamo restare tutti.
  Non ho mai creduto nel libero arbitrio o nell’anarchia ma nella possibilità di mettere a confronto opinioni anche diverse per trovare la soluzione giusta. Quando non lo si pratica il dialogo e il confronto si trasformano in momenti di sfogo che rasentano l’isteria e la violenza.
  Malgrado siano trascorsi tanti anni, ancora oggi le parole “devi” e “dobbiamo” mi bloccano. È vero che tutto dipende da chi le dice, ma la fitta allo stomaco che provo è sempre la stessa.


Umberto Siboni © 2018
tutti i diritti sono riservati


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