I CINQUE PONTI

INTELLETTO

La fiducia

            Si può perdere la fiducia nell’uomo? Sì! capita.
            Si può perdere la fiducia in sé stessi? Sì! capita.
            Si può perdere la fiducia nello stato? Sì! capita.
            Si può perdere la fiducia nella Chiesa? Sì! capita.
            Si può perdere la fiducia in Dio? Sì! capita.
            Si può perdere la fiducia in Gesù Cristo? Impossibile.
            Quando l’accogli nel tuo cuore non ti lascia più.

  Di Lui avevo sentito parlare sin da bambino. I miei andavano a Messa e mi trascinavano con loro. L’unico mio desiderio era tornare a casa: le cose che mi aspettavano erano i pochi giochi e credevo fossero tutto. A sette anni feci la Cresima e la Prima Comunione. Oltre alle definizioni imparate a memoria, ricordo lo schiaffo del Vescovo e il libretto con i Vangeli che mi avevano regalato.
  Quel libretto mi incuriosiva, lo sfogliavo e cercavo le parabole. Erano racconti bellissimi ma ben lontani dalla mia vita: belle favole che finivano sempre bene. A dodici anni riuscii a convincere i miei a lasciarmi andare a Messa da solo, in bici. Arrivato a un incrocio, a sinistra si andava in chiesa mentre a destra c’era il campo sportivo dove le squadre giovanili erano impegnate in un torneo di calcio. Andai a destra e da quel momento di chiesa non ne volli più sapere.
  Passarono gli anni e un compagno di classe, un giorno, mi disse che un gruppetto di suoi amici avevano organizzato una gita in un paesino disabitato, in montagna.
  Si sarebbero divisi in due gruppi in costume: uno di indiani e l’altro di cowboy e, a suon di sacchetti di carta pieni di una mistura di talco e gesso, si sarebbe rappresentata una battaglia. La gita non costava nulla, bisognava solo portare da casa un panino e da bere. Se avessi voluto essere nel gruppo dei cowboy sarebbe bastato indossare un paio di vecchi blue jeans, a cui si applicava una banda di scotch gialla, e una camicia azzurra. Incuriosito, accettai di partecipare.
  Eravamo più di cinquanta, il tutto era organizzato benissimo. A capo c’era un prete alto più di due metri. Avvenne di tutto e coprimmo quel paesino di polvere bianca. Le case erano tutte diroccate per cui non c’era pericolo di fare danni. Anche noi eravamo ridotti in uno stato pietoso. Si vedevano solo gli occhi e per proteggere i capelli avevamo una specie di banda di stoffa. Non ci riconoscevamo più. La battaglia finì nel primo pomeriggio. Ci lavammo la faccia al torrente e pranzammo lungo il bordo del ruscello. Avvisarono che ci saremmo ritrovati in una radura nel bosco per celebrare la Santa Messa. Rabbrividii. Questa non ci voleva.
  Lasciai andare avanti tutti e mi nascosi dietro un albero, lì vicino. Potevo vederli e sentirli perché avevano portato un altoparlante da campo.
  Iniziò la Messa e giunti alla predica, quel prete iniziò a parlare. Ero seduto dietro quell’albero, contrariato di essere lì e in un mare di tristezza: potevo solo ascoltare. Quando aprì bocca ebbi l’impressione che si rivolgesse a me: parlava dei miei timori, delle mie paure, e di quel bisogno unico e irrinunciabile che portavo dentro. Concluse dicendo che l’unica risposta era Gesù Cristo: l’unico capace di restare con me accompagnandomi fino in fondo al mio abisso.
  Quelle parole mi trafissero.
  Tornai a casa. Il mio abisso lo conoscevo bene. Scendendo in esso avevo perso per strada i miei genitori, la scuola, i compagni. Ero rimasto solo, e di questo mi ero fatto una ragione, ovvero che lì in fondo non ci fosse nulla e nessuno. Solo una immensa tristezza e solitudine. Il buio.
  Come poteva quel prete dire quelle cose? Tutti gli altri, durante le prediche, dicevano che bisognava guardare in alto, che solo dall’alto sarebbe venuta la salvezza, che bisognava dimenticare tutto e mettersi nelle mani di un padre che era nei cieli. Chi era allora quel Gesù Cristo di cui parlava? Quello che conoscevo io faceva solo miracoli.
  Più ragionavo, più capivo che non avevo scelta. Dovevo rincontrare quel prete e farmi spiegare come fosse possibile quello che aveva detto. Io, da solo, non riuscivo a vedere nessuno con me in fondo all’abisso.
  Lo rividi e mi convinsi a frequentare lui e la comunità che era nata attorno a lui.
  Ma c’era qualcosa che non funzionava, che mi era incomprensibile.
  Con questi nuovi amici mi sentivo accolto e, per simbiosi, tornai a frequentare la Messa, ma non li seguivo quando loro andavano a fare la comunione. In quel momento io non potevo andare con loro. Cosa voleva dire ricevere il corpo di Cristo? “Prendete e mangiate questo è il mio corpo”. Era solo un modo di fare memoria o c’era altro? Stavo con loro, ma quando mi ritrovavo da solo, l’abisso era sempre lì che mi aspettava.
  Durante un ritiro di Pasqua, il Giovedì Santo, don Francesco, così si chiamava quel prete, mi chiese se volessi partecipare alla lavanda dei piedi. Per lui era importante. Mi sentivo totalmente inadeguato, ma dissi di sì. Lui, alto più di due metri, con una intelligenza che non avevo mai conosciuto prima, si chinava a lavare i miei piedi? E perché aveva scelto me, che mi ritenevo l’ultimo tra tutti? Il gesto era eloquente e in quel momento capii: nello stesso modo Cristo sarebbe potuto scendere nel mio abisso, dovevo solo lasciarlo entrare, dirgli di sì, esattamente come mi lasciavo lavare i piedi da quel prete. Andai a confessarmi non riuscendo a confessare nulla se non l’emozione di quel momento e feci, dopo tanti anni, la comunione insieme agli altri. Avevo finalmente capito. Dipendeva solo da me lasciare che Cristo entrasse nel mio abisso, nel mio cuore, nel mio “io”. Dovevo solo aprirgli la porta. Era la cosa più intelligente che in quel momento avessi potuto fare. Allora ero solo un ragazzo.
  Perché ho detto che Cristo non ti lascia più?
  Perché la vita è lunga e i 70 anni sono arrivati. Penso a quante volte ho fatto di tutto per allontanarlo da me. In certi momenti la sua presenza era scomoda e a volte insopportabile. Voleva cose che facevo fatica a dare. Mi chiedeva di cambiare mentalità: di guardare me e il mondo in un modo diverso, ma in tante occasioni resistevo. Ho cercato di calpestarlo, ma lui era sempre lì, anche nel mio fango, in fondo all’abisso. Il paradosso è che mi ha lasciato sempre nella più totale libertà pur sentendolo pulsare nelle vene. Se avessi trovato qualcosa o qualcuno capace di dare più senso e valore alla mia vita, Cristo lo avrei sicuramente abbandonato: ma questo non è mai avvenuto.
  Mi sono sposato, sono nate due figlie, ho fatto un mestiere che, fino alla pensione, non mi ha dato quello che cercavo. In tutte queste circostanze Cristo è rimasto nel mio cuore e malgrado tutte le verifiche fatte, devo ammettere che la Sua compagnia è la ragione più potente e più importante che ha dato e che dà senso alla mia vita, anche nei momenti più duri e difficili.


Umberto Siboni © 2018
tutti i diritti sono riservati


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