RACCONTI

Mia madre

29 settembre 2019

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  Sulla sinistra della stretta via Curte un muro continuo, alto più di tre metri, ospitava al suo interno il distretto militare di Forlì. Sulla destra, si stendeva una fila di casette a schiera tutte diverse tra loro sia per l’altezza, sia per il colore. Più avanti dopo le casette, al di là di una siepe, si intravedeva un grande orto nel quale lavorava la mia famiglia: vi si coltivavano ortaggi di ogni tipo in aiuole parallele ben disposte e curate. I prodotti venivano poi venduti al mercato in una piazza nel centro della città che distava poche centinaia di metri. Dopo l’orto, continuando per la via, un pesante cancello in metallo introduceva in un’ampia corte dove, sulla sinistra, si affacciava la casa nella quale vivevano i miei genitori e dove ero nato.
  Com’era tradizione, la vita si svolgeva all’interno di quelle mura domestiche e anche i figli nascevano in casa. I parti venivano praticati da una levatrice assistita dalle donne di famiglia che provvedevano al necessario. Prima nacque mia sorella e, dopo due anni, nacqui io.
  Anche la mia nascita avvenne regolarmente in casa, ma dopo qualche giorno ci fu un imprevisto.
  Così mi raccontò mia madre quando ero più grandicello e in grado di capire e ricordare: “Era tutto tranquillo, tu dormivi nella tua culla e io ero occupata nei lavori di casa. Stavo preparando il pranzo perché si avvicinava mezzogiorno. Non ti sentivo più, mi insospettii e venni a controllare. Dormivi ma eri molto pallido. Alzai la copertina e ti vidi avvolto in un lago di sangue. Mi disperai, chiamai tuo padre che lavorava nell’orto. Andò di corsa a chiamare un medico che aveva lo studio nel distretto militare. Venne subito e diagnosticò che il cordone ombelicale non si era staccato secondo la regola, ma aveva aperto una delle arterie che mi collegava, prima del parto, alla placenta. Ti salvò, ma avevi perso molto sangue.”
  Questo racconto faceva seguito a ogni considerazione che riguardava la salute, sempre un po’ precaria, che aveva segnato la mia infanzia. Soffrivo infatti di una forma di nefrite e avevo pochi globuli rossi. L’alimentazione era a base di pappette senza sale dal sapore indescrivibile: chiare, dense al punto da non potersi staccare dal cucchiaio. Era imperativo che dovessi finire quello che c’era nel piatto prima che diventasse completamente freddo.
  All’età di nove anni mia madre mi accompagnò, come spesso accadeva, dal medico.
  Lo studio si trovava in un ospedale situato nel centro della città. Bisognava salire una larga scala di marmo e percorrere un corridoio; oltrepassata una porta bianca, si accedeva alla sala d’aspetto. Al centro, un tavolino con giornali e riviste e, lungo i muri, una fila di sedie bianche di metallo, alcune occupate da altre persone anche loro in attesa di essere convocate.
  Giunto il nostro turno ci chiamarono ed entrammo nello studio. Le pareti erano bianche, smaltate; tutt’intorno, appoggiati su un tavolo e sugli scaffali, erano disposti in bell’ordine degli oggetti a me sconosciuti che mi incutevano una sorta di timore. Il medico, un uomo dal volto giovane, mi guardò, mi misurò il polso, picchiettò con un martello di gomma le mie ginocchia per vedere come reagivo, poi iniziò a parlare con mia mamma di cose che non riuscivo a capire del tutto. Era però chiaro che la guarigione tardava ad arrivare e che occorrevano altre cure. Le analisi del sangue lo confermavano: la percentuale di globuli rossi era sempre bassa e questo avrebbe causato anche un probabile ritardo nella crescita. Mi ero ridotto pelle e ossa e anche il rendimento scolastico era diminuito. La maestra aveva già segnalato un calo della mia attenzione in classe. Mancavo di concentrazione e i risultati erano scadenti. Una quarta elementare sempre più difficile.
  Il medico smise di parlare, rimase un attimo pensieroso, prese una penna e iniziò a scrivere su un bigliettino i nomi di diversi medicamenti spiegando a mia mamma come doveva procedere per farmeli assumere. Consegnò il biglietto, mi guardò, sorrise, ci salutò e uscimmo.
  La farmacia distava poche decine di metri dall’ospedale. Mentre il farmacista consegnava le medicine a mia mamma, spiegando ancora una volta come dovevano essere usate, io guardavo incuriosito i numerosi vasi di ceramica allineati lungo le pareti: avevano forme e decorazioni che rappresentavano strani animali e uccelli in mezzo a una vegetazione con foglie e fiori tutti diversi. Su ogni vaso era dipinto un nome che ne indicava il contenuto.
  Uscimmo, ma non per tornare a casa: tra le medicine prescritte c’erano anche delle iniezioni. Ne avrei dovuto fare subito una, ragion per cui saremmo dovuti passare da un ambulatorio non molto distante dalla farmacia.
  Ci accolse un signore con un camice bianco; prese una fiala dalla scatola, la ruppe, infilò l’ago di una grossa siringa in quello che restava della fiala e ne estrasse il contenuto. Mi disse di sedermi su una sedia e si avvicinò. Lo guardai in volto. Aveva la carnagione scura di chi è stato al mare a prendere il sole, i capelli erano corti, a spazzola, bianchi. In una mano teneva la grossa siringa e nell’altra il laccio emostatico che doveva fissarmi al braccio. Lo guardai negli occhi, lui mi guardò, provai un senso di forte antipatia e incominciai a urlare come un disperato. Mia madre trasalì non capendo la mia reazione, cercò di tranquillizzarmi, ma ogni volta che quel signore si avvicinava urlavo sempre più forte e mi agitavo come un forsennato per evitare che mi toccasse. Non c’era niente da fare, il signore con il camice bianco disse che era la prima volta che vedeva una reazione così violenta, che non avrebbe potuto farmi l’iniezione, che era meglio tornare dal medico e cercare un’altra soluzione.
  Fui letteralmente trascinato fuori da mia madre e con suo grande dissenso tornammo all’ospedale dal medico. Spiegò l’accaduto e mostrò la scatola delle iniezioni.
  Il medico prese la scatola, il suo volto si corrugò, guardò mia madre, poi mi guardò incredulo.
  Disse che se me l’avessero fatta, quell’iniezione sarebbe stata molto probabilmente per me fatale. Non era quella che lui aveva prescritto: un errore del farmacista.
  Non capii cosa volesse dire la parola “fatale”.
  Non lontano dall’ospedale c’era una chiesa dedicata a Santa Lucia.
  Entrammo: mia mamma accese una candela. Rimase assorta in lacrime per qualche minuto, mi chiese di dire con lei una preghiera, poi uscimmo e tornammo a casa.


Umberto Siboni © 2019
tutti i diritti sono riservati


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