RACCONTI

Il raggio di luce

24 ottobre 2019

”photo”

  Ebbe inizio al momento della nascita, quando dipendevo totalmente da mia madre: sue erano l’alimentazione, le cure, le parole, i sorrisi, e le carezze; ero completamente nelle sue mani. Da parte mia potevo solo guardare, succhiare, piangere quando era il caso, e fare quello che tutti i neonati fanno.
  Insieme allo sviluppo biologico, le prime immagini del mondo apparvero ai miei occhi, e la crescita ebbe inizio.
  Entrai nel ritmo del tempo: i giorni, i mesi, gli anni; tutti segnati dal giorno e dalla notte. Vidi quel sottile raggio di luce lasciato entrare nella stanza attraverso le persiane socchiuse; al suo interno piccoli corpuscoli luminosi si agitavano apparendo e scomparendo guidati da una misteriosa mano che non vedevo. Inutile il tentativo di afferrarli, non si lasciavano prendere, e sparivano nel nulla appena uscivano dal raggio di luce.
  Oltre al sole conobbi la pioggia, i temporali, e i fulmini seguiti dal loro tuono che facevano impazzire mia madre, preda di una sconosciuta paura. Ascoltai il rumore della pioggia che picchiava sui vetri, il verso del gatto, del cane, delle galline, e dei piccioni che mio padre allevava in un piccolo locale, in cantina.
  Più tardi si aggiunsero anche due canarini rossi chiusi in una gabbietta e il loro canto riempì la casa. Nacquero altri canarini e furono loro a riempire la casa, dentro le loro gabbiette. Quando la mattina si svegliavano, il cinguettio era assordante. Cercai di imitare il loro canto e, a ogni mio verso, loro rispondevano. Fu il primo rapporto di reciprocità gratuito, senza apparenti interessi. Il cibo, l’acqua e le cure li forniva loro mio padre; da parte mia c’erano solo la compagnia e i miei versi per imitarli. Allo stesso modo imparai a imitare il verso delle galline, dei piccioni, del cane e del gatto, comprese le sue fusa.
  Ben altro, invece, fu il rapporto con le voci degli umani. Queste, oltre ad avere la caratteristica di essere indirizzate a un fine ben preciso, lasciavano trasparire il sentimento che le animava. A volte erano calme, tranquille, altre volte erano cupe e cariche di tensione, tanto da far nascere in me paure e inquietudini che non riuscivo a capire e a risolvere: succedeva in casa, quando le cose non andavano bene, quando volevo fare di testa mia, quando non rispettavo i tempi legati alla vita domestica. Anche tra i compagni di gioco c’era sempre chi voleva imporre la propria ragione, chi voleva decidere per me come dovevo comportarmi, e chi voleva distruggere il buono che riuscivo a realizzare solo perché non andava bene a loro.
  L’inquietudine aumentava fino al punto da far nascere il desiderio di isolarmi, di non voler vedere più nessuno, di nascondere la mia faccia agli occhi di chi mi guardava.
  Trascorse così la prima infanzia, e venne il momento della scuola: nuovi volti, nuovi compagni e nuovi insegnanti. Solo per alcuni di loro provavo simpatia; gli altri, invece, mi ricordavano quella paura profonda, insuperata. Alle prime parole, imparate in casa, se ne erano aggiunte di nuove come dovere, regole, obblighi, scadenze. In classe si parlava di argomenti che avremmo dovuto assimilare imparando i termini giusti che li definivano: così era per la geografia, la storia, l’aritmetica, l’italiano. Quest’ultimo era il più complicato: sostantivi, articoli, aggettivi, verbi, e tutti i complementi che non finivano mai. Si parlava di tutte queste cose ma non si parlava di come ero io, dei miei problemi, delle mie emozioni, dei miei sentimenti, di come vivevo in casa o con i compagni. La stessa cosa capitava anche andando in parrocchia; le parole che sentivo erano legate al mio comportamento: come essere bravo con i genitori, come obbedire, come non rispondere male e non dire parolacce e non fare tante altre cose.
  Mancavano sempre le condizioni per poter tirar fuori quel magone che avevo dentro. Capivo che una parte di me si era fermata in quei primi anni di vita, e pensavo che non fosse più possibile che qualcosa di buono e di bello potesse capitarmi. Ero in una situazione insostenibile; desideravo avvenisse qualcosa che mi tirasse fuori da quella trappola, qualcosa che non fosse dipeso solo da me: con le mie sole forze non ce la potevo fare.
  Nella vita di una persona ci sono dei punti fermi che si ricordano e a cui ci si riferisce, non per il valore che hanno avuto in sé, ma per quello che hanno fatto nascere.
  A dodici anni, in un pomeriggio invernale, spinto da mia sorella di due anni più grande, entrai nella sala di un cinematografo nel centro della città. Era stato organizzato un cineforum e avrebbero proiettato un film seguito da un cortometraggio. Il tema del film era l’incomunicabilità tra le generazioni e la crescente solitudine tra le persone. Sin dai primi fotogrammi capii che c’era una corrispondenza tra le scene di quel film e le scene della mia vita. Quell’ inquietudine e quel malessere che avevo dentro non erano solo miei; anche altri li provavano e cercavano di dare un nome, di trovare una via d’uscita alla propria solitudine. I personaggi del film si guardavano, ma dalla loro bocca non usciva nessuna parola. Gli sguardi si incrociavano ma non esprimevano nulla, come avvolti in una sottile nebbia. I pochi tentativi di dialogo sfociavano nell’incomprensione e nel silenzio. Le parole avevano perso ogni possibilità di stabilire un contatto; erano fredde, lontane, inutili. Il silenzio occupava le case, i Bistrot, i Café e i viali alberati di Parigi. Le parole si erano dissolte nel nulla; rimaneva solo il rumore della città, che non dava tregua né di giorno né di notte.
  I fotogrammi del mio passato apparvero con nitidezza sin nei minimi particolari, ma la colonna sonora era diversa. Le voci e i suoni li sentivo in sottofondo, in primo piano sentivo la voce dei miei sentimenti. Sentivo le parole che avrei voluto dire, parole mai uscite dalla mia bocca. Stavo capendo che occorreva una nuova chiave per aprirmi alla vita, per far luce su quello che ero, per non perdermi nel nulla, per non dimenticare; ora sapevo che potevo cercarla. La parola “FINE” nel film per me suonò come un inizio.
  Il cortometraggio che seguì non aveva sonoro e si ambientava sulla tavolozza di un pittore e i colori, guidati da una mano misteriosa, iniziarono a mescolarsi tra di loro: il rosso con il giallo, il verde con il blu e lentamente tutti gli altri vennero coinvolti dando vita a combinazioni così intense da mozzare il fiato. I colori continuarono inesorabilmente a mescolarsi fino ad arrivare all’unico colore, somma di tutti: il nero.
  In quel momento le luci della sala si accesero.


Umberto Siboni © 2019
tutti i diritti sono riservati


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